La visione del nuovo film “Il giardino del re” può avere diversi spunti di riflessione perché affronta un argomento come filo conduttore ma da cui si agganciano altre tematiche, realistiche ed attuali. Ne parliamo nell’intervista che il regista Silvio Soldini ha concesso a Tuttoitalia.
Sig. Soldini nel suo film più famoso “Pane e Tulipani” aveva scelto un titolo che era chiaramente un omaggio alla commedia italiana degli anni ‘60 dei film di De Sica. In questo nuovo lungometraggio, invece, il titolo non è così intuibile… Sì, effettivamente è molto criptico come titolo ma, durante la lavorazione del film, sono andato ad informarmi presso il luogo in cui questo numero ha un senso. È lo stesso luogo dove la protagonista va alla ricerca di un uomo e fondamentalmente di sé stessa. Il responsabile di questo lugubre luogo mi ha spiegato diverse cose per aiutarmi a costruire il mio film e, tra queste, anche questo numero che mi ha colpito molto e che ho deciso di trasformalo in titolo principale.
Effettivamente parliamo di una camera mortuaria dove viene messo come coprotagonista il responsabile. In un mondo di serie e libri in cui, in questi ambienti si è dato spazio solo ai medici legali e autopsie, è una scelta molto diversa… Infatti, la trama del film percorre anche questo punto di vista che pochissime persone conoscono ed è molto interessante capire come viene vissuto questo lavoro da chi lo conduce. Il film, come già detto, affronta molte tematiche e tra queste anche il punto di vista, estremamente concreto e interessante, di questo personaggio che rimane sempre nell’ombra delle trame e sceneggiature.
Anche la scelta dell’attrice principale, Kasia Smutniak, è stata perfetta essendo un’attrice strutturata e con un passato- purtroppo- doloroso alle spalle (la morte del marito Pietro Taricone-ndr) che le permette una interpretazione estremamente credibile e profonda, vero? Abbiamo girato nel periodo della pandemia e la rosa delle attrici disponibili era minore rispetto agli anni precedenti. Ma quando mi hanno proposto Kasia nell’interpretazione di questa donna che si comporta come un “generale”, ho pensato subito che fosse perfetta. Anche perché lei è proprio figlia di un generale polacco e cresciuta in un ambiente duro e cinico come quello militare.
La bellezza di questo film è anche l’impostazione del carattere e dell’ambiente lavorativo della protagonista: le prime scene, a livello di dialoghi, per chi non è del ramo, sono quasi incomprensibili. È stato fatto apposta? Sì, esattamente. Dipingo una donna in carriera che deve sovrastare e cercare sempre di dimostrare di essere superiore in un mondo di uomini. L’uso di inglesismi per descrivere l’ambiente in cui lavora è scelto appositamente per fare capire il livello, anche di stress lavorativo, a cui lei è sottoposta per ricoprire un ruolo in cui deve sgomitare e lavorare 24 ore su 24. È una donna in carriera, come ce ne sono tante ora ma che ha scelto di castrarsi dedicandosi totalmente al lavoro e trascurando la famiglia e anche l’amore.
Quindi il punto di svolta è l’incidente in cui è coinvolta? Certo. È da questo punto che la protagonista-Camilla- si ferma e comincia a farsi domande sulle priorità della sua vita, del suo percorso e dei suoi traguardi professionali che diventano sempre meno importanti nel corso delle scoperte e del suo viaggio attraverso il film.
Qui entriamo nelle argomentazioni di questo lungometraggio con i suoi tanti spunti. Nel film è affrontato la tematica della donna sola in carriera a cui mancano le basi di una vita solida e affettiva al di fuori del lavoro snervante. Parlo dell’immigrazione clandestina e di questa classe sociale che si nasconde ma non per questo la loro vita vale meno di quella di chi vive alla luce del sole. Tratto dei problemi famigliari con gli adolescenti che, come generazione del futuro, vogliono salvare l’amazzonia e non gli interessa i risultati lavorativi ad alti livelli dei genitori. E anche del ritrovarsi, di rinascere e comprendere i valori della vita.
Un film ben fatto, molto riflessivo, che discute di tematiche contemporanee e anche di piccole quotidianità ma completamente diverso dalla leggerezza e ironia di “Pane e Tulipani” che aveva vinto anche il David di Donatello come miglior film, regia, attori nel 2000. Il nostro cinema ha bisogno ancora di film di questo genere per tenere alto il livello dei maestri che lo hanno reso famoso nella commedia all’italiana. Lei si è dedicato anche a diversi pregevoli documentari ma sarebbe piacevole se ci regalasse un altro capolavoro così… Ci vuole l’ispirazione giusta. Non si può costruire a tavolino un film ironico, recitato bene e con una sceneggiatura senza avere la giusta idea e spirito. Pane e tulipani era nato come un film con un piccolo budget, con attori che all’epoca non conoscevo (Bruno Ganz è stato uno degli attori svizzeri – nato a Seebach- più talentuosi e amati anche se ha interpretato quasi solo ruoli drammatici come il ruolo di Hitler nel film “La caduta”, nominato agli Oscar) ed è stata una sorpresa per noi il successo straordinario che ha avuto. Spero di avere ancora l’ispirazione!
Il cinema si è evoluto, è cambiato: le serie televisive hanno preso il posto dei film nell’interesse del pubblico. Lei pensa che la troppa offerta e anche le tempistiche con cui bisogna aspettare ,a volta anni, per vedere la conclusione di una serie, prima o poi stufino il pubblico e si ritorni ad apprezzare un semplice lungometraggio di 90 minuti? Lo spero, anche perché andare al cinema è magia, condivisione. È un altro modo di apprezzare un video grazie all’atmosfera, al sonoro perfetto, allo schermo. È indiscutibile che vedere un film al cinema e vederlo in televisione è diverso: è meno coinvolgente. Le serie le vedo anche io, quelle di cui sono sicuro siano già finite tutte le stagioni. Alcune sono davvero belle perché c’è la possibilità di strutturare i personaggi con più tempo a disposizione. Ma se si riesce a fare la stessa cosa in 90 minuti, allora un film visto in sala ti dona emozioni diverse.
Grazie per questa intervista signor Soldini e ci vediamo al cinema!